Il gioco nella stanza di terapia
Dott.ssa Carlotta Passi
Nella pratica clinica molte volte i genitori mi hanno chiesto cosa accade durante le sedute individuali del proprio bambino con il terapeuta. I genitori si danno diverse risposte, in particolare: “racconterà le cose accadute”, “riporterà ciò che non gli piace e che lo fanno star male”, “riferirà i suoi vissuti rispetto a certe situazioni”, “potrà parlare di sé e magari fare delle richieste di aiuto”.
Solo alcuni riescono a pensare che nella stanza il bambino possa giocare e disegnare, avere uno suo spazio; forse i genitori immaginano per il proprio figlio uno spazio più simile al loro, dove la parola è il mezzo di maggior espressione di vissuti e racconti.
Il bambino nella “sua” stanza di terapia impegna gran parte del tempo a giocare e nel gioco si racconta, parla di sé, delle sue paure, porta i suoi conflitti e le sue fantasie; infatti, il gioco è il modo naturale di espressione per un bambino; può raccontare se stesso oltre ad essere un mezzo per comunicare.
Diviene poi compito dell’adulto mettersi in relazione con il bambino tramite questo linguaggio e codificare ciò che viene rappresentato nell’attività ludica. Inoltre, il gioco per il bambino non è mero passatempo spensierato, ma il lavoro fondamentale attraverso cui il suo pensiero simbolico e lo spazio mentale possono crescere ed alimentarsi.
Melanie Klein, psicanalista nota per i suoi lavori pioneristici nel campo della psicoanalisi infantile, sostiene che “nel gioco il bambino esprime le sue preoccupazioni, i suoi conflitti, le sue fantasie; e inoltre, i bambini portano le loro paure e le loro angosce” (Klein, 1971); sarà poi compito dell’adulto sintonizzarsi sui tali vissuti che emergono nell’attività ludica per comprendere ciò che il bambino sta rappresentando e poterlo così contenere.
Per chiarire quando detto in modo più esplicito, riferirò tre situazioni cliniche in cui i bambini attraverso il gioco raccontano di sé.
Emanuele (nome di fantasia), di 4 anni, nella stanza attraverso il gioco riportava le sue paure rispetto alla separazione dei genitori e il suo senso di smarrimento. Metteva in scena con le costruzioni la sua casa che veniva distrutta dagli animali, oppure arrivava un terremoto che la devastava, o in altre rappresentazioni c’era nelle vicinanze dell’abitazione un vulcano che eruttando distruggeva tutto, la casa e i suoi abitanti.
Sembrava un gioco ripetitivo, sempre lo stesso tema, ma quel gioco mi permise di comprendere la sua angoscia: la rottura del nucleo famigliare e la possibilità di un cambiamento di casa. Il bambino si sentiva disorientato perché le sue certezze stavano svanendo.
Poi pian piano il gioco subì delle trasformazioni, il bambino iniziò a trovare delle soluzioni emotive ed a rappresentare nel gioco barche e navi che potevano attraversare mari, molto grandi e agitati, per scoprire nuovi luoghi e posti, ancora sconosciuti, ma che esistevano e si potevano raggiungere.
Il bambino attraverso il gioco era riuscito ad esprimere i suoi vissuti angosciosi legati alla separazione dei genitori e al cambiamento di casa, ma la terapia attraverso il gioco ha permesso a Emanuele di elaborarli e di trovare nuove soluzioni.
E come afferma la Klein “attraverso il gioco non solo il bambino impara a dominare e padroneggiare il mondo esterno, ma domina e media l’angoscia di un mondo interno, elaborando conflitti e fantasie”.
Valeria, di 6 anni, invece, rappresentava sempre ambulanze, ospedali, dottori che salvavano e medicavano bambini e adulti, e spesso c’erano bambini soli, senza i propri genitori che vivevano a casa o negli ospedali insieme ad altri bambini, come orfani.
Valeria arrivava nel centro clinico dopo pochi mesi che alla sua mamma era stato diagnosticato un carcinoma al seno ed era stata operata di urgenza, rimanendo per lunghe settimane in ospedale. Valeria nel gioco riportava la sua angoscia di morte riguardo la malattia della mamma, e lo faceva vedere attraverso questo ambiente medicalizzato, mostrando anche il suo desiderio e fantasia di guarigione, perché i medici erano li pronti a curare.
Inoltre, la bambina raccontava anche la sua angoscia di abbandono nei riguardi della figura materna, che per lunghe settimane non si era potuta occupare di lei in quanto ospedalizzata.
Nel gioco Mattia, di 7 anni, metteva in scena sempre battaglie di soldatini, c’erano scontri tra buoni e cattivi, guerre tra alieni e umani. Attraverso il gioco tirava fuori la sua rabbia che spesso nella sua famiglia veniva negata o non accolta.
Mattia provava a combattere la sua battaglia, la sua lotta contro la pipì incontrollabile che sopraggiungeva la notte quando dormiva. La sua lotta contro quel pannolino che doveva mettere prima di andare al letto e che non lo faceva sentire sicuro ed autonomo rispetto alle sue buone qualità e risorse.
Con la sua battaglia tirava fuori anche la sua aggressività contro me terapeuta, perché si aspettava che gli “togliessi” il suo disagio in pochissime sedute, avendo costruito una grande aspettativa verso me e verso l’aiuto che gli avevo offerto.
Così nell’infanzia come nell’età scolare il gioco permette al bambino di affrontare la tensione tra i suoi desideri e l’impossibilità di soddisfarli immediatamente (es. il raggiungimento del controllo sfinterico) e quindi il gioco rappresenta anche una risposta ai bisogni non soddisfatti (la battaglia dei soldatini).
Ad ogni età il bambino gioca naturalmente, perché prova una sensazione di piacere e di benessere, infatti attraverso questa attività il bambino può sperimentare sé stesso, può elaborare la realtà che lo circonda, può esprimere le sue emozioni, può costruire significati.
Attraverso il gioco, infatti, il bambino inizia a comprendere come funzionano le cose: che cosa si può o non si può fare con determinati oggetti, si rende conto dell’esistenza di certe relazioni tra le cose e di alcune regole di comportamento e dei limiti, sviluppando e potenziando così le sue competenze intellettive, oltre a quelle relazionali e affettive.
Allora possiamo affermare che l’esperienza ludica insegna al bambino ad essere perseverante e ad avere fiducia nelle proprie capacità, in quanto il gioco diviene un processo attraverso il quale il bambino acquista consapevolezza del proprio mondo interiore, si sperimenta nelle sue competenze (intellettive, relazionali ed affettive), scopre sé stesso e gli altri, mettendo di volta in volta un mattoncino per la costruzione di sé e della sua personalità.
Il gioco diviene, quindi, espressione del mondo interno, diviene comunicazione esplicita, diviene costruzione di significati, diviene libera espressione di sé e delle emozioni, ma soprattutto il gioco diviene la massima espressione di creatività dei nostri bambini.
Inoltre, nella stanza di terapia il bambino inizia pian piano a costruire un legame di fiducia con il terapeuta, che lo accoglie di seduta in seduta e con il quale consolida il suo rapporto attraverso quell’attività ludica che li mette in comunicazione e in relazione. Il bambino così si sente accolto, ascoltato ed aiutato e sentirà quello spazio sempre più “suo” perché può portare sé stesso.
Riferimento Bibliografico
Klein M., (1971). “ Analisi di un bambino”. Bollati Boringhieri, Torino.