Quanto è difficile separarsi
Dott.ssa Mariarosaria Gilio
Una delle situazioni evolutive che vedono il bambino come protagonista, è la separazione dalle figure di accudimento.
Il neonato passa da un ambiente protetto e familiare, che è la pancia della mamma, ad un altro ambiente esterno che è vasto, sconosciuto e minaccioso.
Se nella pancia della mamma impara a percepire il mondo, quando nasce si trova a doverlo affrontare diversamente e la persona che se ne prende cura, di solito la madre, sarà quella che poco alla volta lo aiuterà ad avere un vissuto più sereno e familiare rispetto al mondo esterno.
Tale processo si evolve lentamente dai primi anni di vita passando da un momento in cui il bambino si percepisce come separato dalla madre, ad uno in cui comincia ad esplorare il mondo pur sapendo di poter far ritorno ad una “base sicura” (la madre) che lo accoglie e gli dà conforto.
La separazione dai propri caregiver, tuttavia, non è sempre priva di sofferenza.
L’inizio della scolarizzazione, ad esempio, è un momento di distacco temporaneo che può creare un disagio al bambino, nonché un dolore alla mamma e al papà.
Simone è un bambino di 6 anni, figlio unico, e arriva accompagnato dai genitori che verbalizzano subito di non sapere più cosa fare.
Simone è iscritto alla prima classe della scuola primaria e la mattina rifiuta di andarci opponendosi con tutta la sua forza. Accetta di andare a scuola solo se accompagnato dalla madre, casalinga, che, però, non guida e quindi, essendo necessaria la presenza del padre, per quest’ultimo è una doppia fatica, in quanto deve anche riaccompagnare la moglie a casa, prima di potersi recare al lavoro.
I genitori fanno una richiesta di aiuto esplicita, soprattutto il padre che appare davvero molto affaticato e la sua pazienza sembra esaurita.
Entrambi, però, vedono nel bambino solo la difficoltà del rifiuto scolastico negando ogni altra problematica.
Da un approfondimento valutativo, invece, vengono messe in evidenza molte altre criticità che riguardano le varie autonomie del bambino: Simone, pur avendone le capacità, non fa nulla da solo!
“La mattina andiamo di fretta…” e per lavarsi e vestirsi ci vuole la mamma, per il latte usa il biberon “…così controlliamo che lo beve…” e negli altri pasti viene imboccato.
La sera dorme nel lettone con la madre ( “…i vicini fanno rumore e, nella sua cameretta, lo sveglierebbero”) e il padre, ormai, ha trovato rifugio sul divano.
Al bagno Simone ci va solo se è la madre a ricordarglielo, come se non potesse sentire lui il suo bisogno fisiologico, e soprattutto anche lì deve essere aiutato: “…altrimenti non si pulisce bene”.
Tra i tanti aspetti, quello che colpisce è l’uso ripetuto, da parte dei genitori, di giustificazioni. Per ogni comportamento c’è un motivo e nulla sembra poter essere considerata come alternativa mostrando una difficoltà di accedere ad un cambiamento rendendo più autonomo il figlio.
Nella stanza di terapia, la dipendenza madre-figlio viene messa in evidenza, così quanto sia bloccato il processo di separazione e individuazione del bambino.
I genitori, ma soprattutto la madre, non distinguono i bisogni del bambino da quelli loro.
La tendenza è sempre quello di anticiparlo e di non consentirgli di provare e anche di sbagliare. Il bambino non ha nessuna possibilità di sperimentarsi vivendo anche piccole frustrazioni che, nel superarle, gli permetterebbero di crescere.
La diade madre- bambino sembra essere ancora la stessa cosa: Simone e sua madre non sono ancora due individui distinti.
L’atto di entrare a scuola, simbolicamente, ci spiega questo concetto: andare a scuola vuol dire distaccarsi dalla madre e dall’ambiente familiare dove ci si sente protetti. In quel momento si vive una separazione che, pur essendo momentanea, genera un vissuto di abbandono e di angoscia rispetto alla figura di accudimento lasciata a casa.
Nello specifico, Simone non può separarsi dalla madre perché fantastica che alla stessa, in sua assenza possa accadere qualcosa di tragico e, a sua volta, dalla madre non riceve una rassicurazione perché a stare male è anche lei, pur non essendone pienamente consapevole.
La madre e Simone sono legati simbioticamente: nel distacco Simone crede ancora che la madre scompaia e non vi faccia più ritorno. La figura materna non può essere ancora mentalmente sostituita da un oggetto simbolico e la paura e il bisogno di controllo sono elevati.
Il processo di separazione non è scevro da sofferenze e il bambino necessita di essere supportato dai genitori che hanno un ruolo fondamentale.
Inserirsi in un ambiente nuovo, ad esempio, crea ansia. Il bambino, che è solo, ha bisogno di essere accompagnato dal pensiero più rassicurante che ha e che è quello della mamma.
In una situazione di simbiosi madre-figlio, la madre che compare come immagine mentale, è una rappresentazione ferita e sofferente e, in genere, tale pensiero trova riscontro nella realtà in cui la madre ha davvero lei stessa una difficoltà di separazione dal bambino.
Ancor più, se la madre presenta una vera e propria depressione, la separazione sarà decisamente più difficile.
Il lavoro clinico richiede quindi, di fornire un aiuto non solo al bambino, ma soprattutto ai genitori che spesso sono portatori di problematiche individuali che, se non riconosciute, generano un invischiamento emotivo per il bambino che tende ad assumere un ruolo di cura in cui si fa carico degli adulti.
In questo modo, però, il suo processo di separazione-individuazione viene ostacolato e i sensi di colpa fanno da collante nella dinamica madre-figlio.
Il padre, se non agisce altre vie di fuga (“…sto pensando di accettare una proposta di lavoro che mi tenga fuori casa fino al venerdì…” dice il papà di Simone), può assumere il ruolo di terzo che interviene nella simbiosi permettendo la crescita del figlio, soprattutto se maschio.
Se il tema dell’attaccamento simbiotico nelle relazioni, è importante agli inizi della vita, come abbiamo visto può diventare anche fonte di disagio e sofferenza sul piano evolutivo, se rimane immutato e fisso nel tempo.
Nella modalità simbiotica è come se non si potesse esistere senza la presenza dell’altro e se diventa il modo privilegiato per rapportarsi al mondo, l’autonomia psichica viene sempre meno.
Nel percorso terapeutico, la madre di Simone manifesta maggiore consapevolezza del suo dolore quando afferma di non poter stare lontano dal bambino dicendo “… ho bisogno di sentire il suo odore e il suo respiro…”, esprimendo il suo stato depressivo.
Molto spesso, infatti, il vero problema è nella depressione materna. Per questo, va aiutata la madre affinché il bambino possa trarre il maggior vantaggio dalle sue cure. E, inoltre, è importante evitare di innescare il circuito della colpevolizzazione, che lascia spazio solo all’ansia ed al dolore.
E’ utile pensare, però, che la sofferenza fa parte del vivere ed è potenzialmente evolutiva.
Il processo di autonomia va visto un po’ come un gioco di perdite e conquiste e se il messaggio che viene dato al bambino è quello che i distacchi sono dolorosi ma possibili, allora quest’ultimo potrà imparare sempre più a tollerarli ricorrendo a difese interne valide per la sua crescita.
Se ciò non avviene, il rapporto con il mondo sarà complesso.
Tuttavia, non bisogna demonizzare la fase simbiotica perché per potersi separare bene, bisogna prima unirsi bene attribuendo alla simbiosi madre-figlio anche il giusto valore, purché transitorio ma utile per fondare le basi dello sviluppo individuale.